Si può fare a meno della politica?
Giovanni Bianchi
Giovanni Bianchi (1939-2017) politico, presidente nazionale delle ACLI (1987-94), eletto deputato nelle liste del PPI nel 94 di cui fu presidente, è stato relatore della legge per la cancellazione del debito estero dei paesi del terzo mondo Dopo 3 legislature in parlamento è stato segretario provinciale del PD di Milano. Fondatore e animatore dei Circoli Dossetti, Bianchi era frequentatore di Nova Cana ed amico personale di Angela Volpini. Nell’articolo, che precede di poco la sua morte pone in relazione l’urgenza di una riforma della politica secondo le indicazioni del messaggio mistico del Bocco che pone al centro l’unicità e la creatività della persona umana e la necessità di cambiare in positivo la visione dell’uomo per poter cambiare il mondo.
Un problema di senso
Mentre il potere può esercitarsi e far valere il suo comando da sopra e da fuori anche indipendentemente dalla mediazione politica, la politica non può non prevedere la mediazione con il potere. È chiamata ad interrogarsi continuamente sul problema del senso, dell’efficacia, dell’organizzazione e del mezzo adatto.
Se è vero che i partiti tradizionali sono tutti oramai irrimediabilmente alle nostre spalle, è possibile riconoscere che anche il modello del partito leninista è una modalità storica del decisionismo. (Ed è anche possibile pensare che Carl Schmitt guardasse a Lenin oltre che a Hitler…).
Il problema che adesso sta davanti a noi è allora quale strumento politico sia possibile adoperare una volta finito il modello leninista. Ricordando che ad esso in qualche modo si ispiravano la stessa Democrazia Cristiana e forse perfino il Partito Liberale di Malagodi.
Il problema è tutt’altro che lontano e fuori campo dal momento che anche per la politica italiana si tratta di andare oltre quell’eccesso di agnostico recentemente stigmatizzato da papa Francesco.
E perciò si tratta di dotarci al più presto di una bussola per orientarsi nella selva degli avvenimenti che ci circondano e che in maniera più spesso incomprensibile stanno preparando il nostro futuro.
Il problema riguarda anche quei gruppi che in un tempo molto lontano chiamavamo “gruppi spntanei” e l’associazionismo consolidato perché indubbiamente queste ultime organizzazioni hanno altri problemi, ma se si ostineranno a inseguire quei problemi con un atteggiamento meramente difensivo finiranno per avviarsi ad una inevitabile chiusura in quanto enti inutili. Ecco perché dobbiamo dotarci in fretta di una bussola o, detto in maniera tradizionale, di un progetto. Meglio comunque un progetto sbagliato che niente.
Vale la pena di sintetizzare ancora una volta lo stato della questione. Questo mondo risulta dominato da sopra dalla volontà di potenza del capitalismo finanziario, che si legittima attraverso il pensiero unico. Sotto questa cupola va dilagando – e la crisi ne ha aumentato l’estensione e la velocità – l’etica della competizione e del merito che si accompagna al diffondersi dell’invidia sociale e del narcisismo.
Tutto infatti si svolge, a far data dalla metà degli anni Settanta, entro la diade polare e conflittuale governabilità-democrazia. E va osservato che mentre si può dare governabilità senza democrazia, non si dà invece democrazia senza governabilità.
Questa è la ragione del senso comune di un’opinione pubblica che ammira e invoca i decisionisti (quelli veri e quelli soltanto mediatici) e, non trovando sul mercato politico la merce scomparsa dei progetti, si affida alle personalità carismatiche. Con l’apparato scientifico di quelli che il decisionismo l’hanno studiato e con l’ingenua fiducia delle masse che sussurrano in romanesco “famoafidasse”.
La mancanza di alternative
Così nascono le vie e i consensi intorno agli uomini della provvidenza o alle occasioni che non hanno alternative. Era più saggio il vecchio e scafatissimo Andreotti quando predicava: “In politica mai dire mai”.
Quel che bisogna assumere come centrale entro la diade conflittuale governaabilità e democrazia è l’accrescimento esponenziale – sul quale tutte le statistiche concordano – delle disuguaglianze, che non sono un fatto meramente sociologico o teorico e quindi neppure soltanto statistico.
È ovvio e non solo auspicabile che una governabilità democratica non può non muovere lungo l’asse della riduzione delle disuguaglianze. Questo è anche il filo rosso che conduce alla individuazione in questa fase storica del percorso al “bene comune”.
Il problema a questo punto diventa: chi può essere portatore di un siffatto progetto? Perché val la pena ribadire che senza progetto si resta disorientati, dal momento che un pezzetto di teoria è in alcuni casi la cosa assolutamente più concreta.
Chi e come raccogliere e radunare?
Non possiamo infatti fare la Woodstock del volontariato, ma neppure delle nuove emergenze. Senza progetto faremmo la raccolta inevitabilmente confusa dei movimenti di evasione. E infatti il campo e la platea dei soggetti sono drammaticamente deserti.
Non c’è più movimento operaio e non c’è più popolo. I partiti che vengono architettati anche a sinistra sono al più partiti della classe media, più spesso impoverita e talvolta in ansia di progressismo.
Si affaccia nuovamente l’ipotesi di un soggetto che prenda le mosse da un retroterra di “mondo cattolico”. Un mondo cattolico del quale si sono più volte stilati certificati di morte (anche da me) e che continua a mantenere una vitalità attraverso numerose e impreviste metamorfosi. La secolarizzazione lo attraversa, ma non lo estingue.
Basti ricordare la sua consistenza antropologica: nessuno può vantare in Italia 8 milioni di persone presenti la domenica alle assemblee della messa.
È allora importante vedere con quali modalità questo mondo cattolico può nuovamente occuparsi di uno spazio pubblico che del resto lo ha sempre visto attento e presente.
Credo sia auspicabile in questa prospettiva mettere a tema un nuovo rapporto con la democrazia degli illuministi, rovesciando per così dire l’ottica del celebre confronto del 2004 a Monaco di Baviera tra Habermas e Ratzinger.
Là il tema era come la religione (quella cattolica in particolare) possa contribuire a rigenerare la democrazia. Questa volta sarebbe più opportuno riflettere su come il costume illuministico abbia positivamente influito sulla vita quotidiana e non soltanto della comunità ecclesiale.
Democrazia o terrore
Il problema è drammaticamente posto all’attenzione di tutti, credenti o meno, dalla nuova emergenza del terrorismo islamico. Soprattutto perché le figure dei terroristi francesi che hanno sterminato la redazione di Charlie Hebdo e la drogheria kosher di Parigi vengono dalla banlieu francese.
Sono nate cioè sul suolo della patria dell’illuminismo e a stento parlano qualche frase in arabo. Il terrorista cioè è un “occidentale” che drammaticamente cerca e trova un fondamento, una tragica ragione di vita nel bagaglio del fondamentalismo dell’Isis o di Al Qaeda.
Con una qualche eccessiva rapidità che va per scorciatoie analitiche, si potrebbe azzardare che le risposte dell’Occidente appaiono insufficienti a dei giovani che vivono un meticciato culturale dove la logica dominante del consumo e della finanza risulta drammaticamente inadeguata a giustificare un’appartenenza, una visione del mondo, il senso di una vita quotidiana marginale e disagiata.
E del resto anche per chi nell’Occidente consapevolmente o inconsapevolmente si ritrova la risposta meramente finanziaria raramente risulta esaustiva. Non si vive di sola carriera e non esiste economia se non in quanto economia politica.
La stessa resurrezione della credibilità del primo ministro Hollande nella piazza oceanica di Parigi discende dal fatto che Hollande ha messo da parte per qualche giorno i legami e le frequentazioni dell’Ena e ha infilato i trampoli politici di una immagine a qualche titolo nuovamente popolare.
La curvatura del Bocco
Si tratta a questo punto di raccogliere e assemblare i materiali adatti alla costruzione di un punto di vista. Quella che chiamerei la visione del Bocco può costituire una piattaforma e un amalgama di spunti analitici e di tentativi per una prefigurazione possibile. Si pensi soltanto alle infinite possibilità di una ricerca della felicità qui in terra. Il punto di partenza è consapevolmente (e forse sconsolatamente) montaliano:
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che nonsiamo, ciò che nonvogliamo.
Più in positivo e in maniera costruttiva possiamo anche fare riferimento alla celebre conferenza weberiana del 1919 su politica e professione: non si riuscirebbe mai a realizzare quel poco che già oggi è possibile se non si ritentasse ogni volta l’impossibile…
E in effetti nel messaggio della Madonna del Bocco le possibilità costituiscono un elemento propulsivo e incommensurabile, dal momento che il concetto di limite è presente per essere superato.
Superato da una visione di speranza che è resa sua volta possibile quando stimoliamo la nostra essenziale autonomia e una creatività della quale ignoriamo i confini e quindi se i confini davvero esistano e come.
Come si evince infatti dalla testimonianza di Angela Volpini, la volontà di cambiamento è tale se muta anzitutto la visione dell’essere umano e si relaziona con gli altri esseri umani in un mutamento di prospettiva dove ad emergere sono le possibilità piuttosto che i limiti.
In crisi dunque la classica distinzione tra natura e sopranatura, mentre l’uomo uscito dall’eden, oltre che di fango, appare sempre più impastato di dover essere e di cielo.
In questo senso a fare positivamente problema è la sua unicità, che fa assurgere l’originalità a un livello tuttora inesplorato, e dove il rapporto con il divino chiede non solo di essere re- indagato, ma di essere anche sperimentato con coraggio.
Ha scritto Angela Volpini in proposito: “Nel momento in cui inizia questo processo, la persona supera le proprie paure, rompe la visione di impotenza che ha di sé, e inaugura una nuova prospettiva omogenea al proprio desiderio di felicità; così facendo scopre che questo è anche il desiderio di tutta l’umanità”.
Un’autenticità umana dalla quale guardare il panorama della crisi sociale e culturale. Una crisi nella quale si rende sempre di più evidente un’analogia tra le bolle finanziarie e le bolle del potere. Crisi nella quale vale la furbizia dei violenti e non l’intelligenza dei pensanti.
Crisi tuttavia non risolta e aperta a tutti gli esiti possibili. E dove non è detto che i cigni neri debbano necessariamente prevalere sui cigni bianchi.
Se dunque constatiamo la voragine dell’identità di un popolo, siamo dalla stessa forza delle cose sospinti a coniugare l’originalità (unicità) della persona con la comunità, a partire da un bisogno diffuso, anche se negato, di comunità.
Una vita e una politica bella sono dunque quelle in grado di esprimere in sé e negli altri una finalità condivisa.
La direzione è comunque indicata dalla bussola e attende i primi passi, con la possibilità reale e ricca di immaginazione che l’orientamento possa essere corretto e riaggiustato durante il cammino.
Apporti ulteriori
Ma non è finita. Sono ancora possibili aggiunte e nuovi approdi provvisori.
Siamo come quel grande sociologo che morendo chiede ai discepoli di cambiare tutto perché si è accorto, proprio in limine mortis, di avere sbagliato. E infatti le ricadute del senso si confrontano con perenni e sempre mutevoli emergenze. (Non a caso la vita si è fatta emergenza e la precarietà è il tono esistenziale oramai universale dell’antropologia umana.) Così ci rendiamo conto di investire troppo sull’esistere, e su questo esistere così condizionato. Di farlo fino a sfinimento, come fossimo in gara con la caricatura di Berlusca.
Corre la storia e noi inseguiamo noi stessi, incapaci di trovare lo spessore della storia e di noi stessi. Così ci accadde quel che capita agli studenti che hanno frequentato Trento Sociologia negli anni mitici e ruggenti del movimento. Ritrovano l’università di allora senza le scritte sui muri e gli pare di aver sbagliato città e di essere finiti alla Bocconi…
La storia invece va indagata come progetto di comunicazione (Volpini).
Oltre ai modelli correnti che presentano la persona come ciò che consuma. Nulla al di fuori del mercato. Per cui siamo entrati in una antropologia del capitalismo dove spetta (spetterebbe) alla politica educarla.
L’antropologia degli italiani è quella trasformistica che è, fin dai tempi del Leopardi. Ma se la lasci così com’è devi anche sapere che con quell’antropologia gli italiani hanno convissuto felicemente per un ventennio con Mussolini. E se il Duce non avesse scelto la guerra, avrebbe probabilmente battuto il record spagnolo di Franco e quello lusitano di Salazar.
Giolitti ne fu consapevole in maniera preveggente. Scrisse infatti nella celebre lettera alla figlia che non si era prefisso di riformare il Paese, ma semplicemente di provare a governarlo. E siccome l’Italia aveva la gobba, lui le aveva confezionato un abito da gobbo.
Per questo nessuna politica italiana minimamente seria può prescindere dal dover essere e quindi da un atteggiamento anche di magistero intenzionato a un’etica civile. Altrimenti malavita e corruzione continueranno a impedire il governo di un paese normale.
Nel frattempo ha vinto il linguaggio delle imprese e quello di una pubblicità che è insieme semplice e carogna. Che studia molto dietro le quinte con esperti variamente assortiti, profumatamente pagati e sicuramente intelligenti: e che poi ti lascia fregato e contento. Consumare è un rito vincente. Benjamin lo sospettava fin dal 1919: il consumo come religione. Il consumo non teme di misurarsi quotidianamente con il mistero della umana natura. Probabilmente il Santo Curato d’Ars, chiuso nel suo confessionale, aveva preceduto e battuto gli psicanalisti, ma oggi il vescovo del Santo Curato d’Ars gli consiglierebbe di andare a lezione da Lacan.
Per questo è spiegabile l’accanimento sulla pubblicità, di chi è a favore e di chi è contrario. Fa parte della nostra quotidianità, è oramai perfino del nostro inconscio la pubblicità. Passiamo così la vita a consumare e a invidiare chi consuma più di noi.
L’uomo ha infatti invidia di chi gli sta un gradino sopra e di chi gli sta un gradino sotto. È infinita la platea degli invidiabili a disposizione. È una massa inesauribile e sterminata.
E così la politica s’è ridotta quanto al senso e quanto allo spazio. Nana figlia di antichi giganti, e non è un bel vedere.
La politica si è ridotta ad essere ogni volta riferita alle emergenze. Essa stessa è emergenza: e non raramente ha la faccia tosta di presentare il proprio affanno come decisionismo opportuno.
Chi governa questa politica?
È risaputo che la nostra è economia di servizi, e anche questa base reale invita a superare un’idea di consumatore fordista che non esiste più. Anche il cittadino non è più fordista e
tantomeno roussoiano. È anche lui a tutti gli effetti (anche quando entra o evita la cabina elettorale) un consumatore.
In una società dove la crescita del Pil è assicurata per gran parte dalla crescita dei servizi, il messaggio e il consenso del cittadino devono confrontarsi con le logiche, spesso astutamente occulte, del consumo.
Anche qui la politica non può più a lungo evitare i conti con la propria vocazione o almeno un tentativo di critica e di magistero.
Gennaio 2015